LA BONDOLA

LA BONDOLA

Fratta Polesine, paese natale di Giacomo Matteotti, è nota anche per essere stata terra di carbonari. Molti loro misteri furono ridotti in cenere durante un noto convivio, tenutosi l’11 novembre 1818 presso Villa Grimani Molin, oggi Avezzù Pignatelli, quando alcuni tra i più coraggiosi cospiratori, ospitati dalla contessa Elena Cecilia Monti d’Arnaud, fascinosa esponente della setta épingle noire, nel tentativo di sfuggire alle conseguenze di una soffiata, gettarono nel camino ogni documento compromettente. Tutto inutile: la polizia austriaca arrestò i convitati, incarcerandoli dapprima nell’isola di San Michele a Venezia, per poi destinarli ai rigori dello Spielberg. Trame, riti e segreti galleggiano e aleggiano ancor oggi, per dirla come Leopardi, sovra campagne inargentate ed acque del Polesine. Tra gli arcani più ostici da rivelare, e più appaganti per le papille gustative, vi è la ricetta della bondola, vero re dei salumi locali.

Il problema riguarda la dimensione assolutamente familiare del prodotto, le cui ricette si tramandano da padre in figlio con una miriade di varianti locali. Le accomuna l’utilizzo di parti pregiate di suino allevato a terra, pancetta e gola, ad esempio, impastate con sale, pepe, vino. C’è chi aggiunge l’aglio, chi insacca con la vescica di vitello, chi sostituisce il vino con il brandy, chi aggiunge altre spezie. Alchimie. A Papozze la bondola assume il nome di bundlìn, ed è la versione veneta della vicina salama da sugo ferrarese. Qui i macellai utilizzano carne di testa e gola, meglio se sanguinolenta e grassa, la bagnano con vino friolaro o clintòn, e vi aggiungono un po’ di fegato. Il bundlìn va poi cotto a bagnomaria sospeso ad un legnetto, facendo molta attenzione che non tocchi il fondo della pentola. Con il purè è uno schianto. Ad Adria dove il salume assume il nome di bondiola la carne suina è mischiata con il 30% di carne di vitello ed una percentuale variabile di lardo. Dopo la stagionatura di quattro mesi viene consumata facendola bollire almeno quattro ore, anche in questo caso come la più celebre «cugina» emiliana.